Giornalisti, nel corso di formazione i senzatetto ritornano “barboni”

di GERARDO ADINOLFI12742098_10207326402211879_6474932725528172557_n“Si possono pubblicare le foto di barboni purché…”. Questa perla si trova in una domanda del corso di formazione professionale continua “Le regole del giornalista tra vecchi e nuovi media”. E’ online, autorizzato dall’Ordine nazionale dei giornalisti.  Dieci crediti formativi,  di cui 2 deontologici sull'”informazione e le regole del giornalismo sui media tradizionali e in ambito digitale”. Ma quel “barboni” nella domanda non è un po’ deontologicamente di cattivo gusto? Della serie, chi controlla i controllori?

 

 

 

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“Io sto con Nello Trocchia”, l’appello per il giornalista minacciato dalla camorra

di GERARDO ADINOLFI

11170347_1670694413168419_6621202099787622923_nQuando un giornalista viene minacciato scattano quasi in automatico parole di solidarietà, vicinanza, coraggio, inviti ad andare avanti. Modi per non lasciare solo chi è vittima di un’intimidazione. Modi per non sentirsi soli. Di tanto in tanto, però, serve anche qualcosa che superi la retorica, la semplice solidarietà a parole, le dichiarazioni che lasciano il tempo che trovano. Serve qualcosa, insomma, di concreto. Come almeno la valutazione dell’adozione di misure per la tutela della persona “esposta a rischio”.

Quel qualcosa di concreto, nonostante siano passati due mesi da quando un boss della camorra è stato intercettato dalle cimici della Procura di Napoli mentre diceva al fratello: “A quel giornalista gli spacco il cranio” per la minaccia subita da Nello Trocchia ancora non è scattato. Nello è un giornalista d’inchiesta campano, che ho avuto il piacere di conoscere di persona qualche anno fa. Scrive, tra gli altri, per ilfattoquotidiano.it, lavora per La Gabbia e La7. E proprio per i suoi articoli è finito nella lista dei giornalisti scomodi.

Non serve essere cronisti né conoscere Nello di persona però per aderire all’appello “Io sto con Trocchia” lanciato dai giornalisti Giovanni Tizian, Manuele Bonaccorsi, Luca Ferrari e Giorgio Mottola per chiedere un intervento del Prefetto di Napoli, Gerarda Maria Pantalone. Da fine giugno, infatti, niente sembra essersi mosso per tutelare la sua incolumità. Di solito il passaggio è automatico: Si sarebbe dovuta rapidamente attivare la procedura standard: la Procura invia la nota degli investigatori alla Procura generale, che a sua volta invia la documentazione in Prefettura. A questo punto il prefetto avrebbe dovuto convocare il comitato per l’ordine e la sicurezza, l’organo, cioè, che decide eventuali misure da adottare.

Nessuna comunicazione ufficiale, però, è ancora giunta. Tra i primi firmatari dell’appello, che è diventato anche una petizione su Change.org e un gruppo Facebook “Io sto con Nello Trocchia”, lo scrittore Roberto Saviano ,Milena Gabanelli, Riccardo Iacona, Peter Gomez e Lirio Abbate.  “Con l’appello – si legge in un lancio Ansa –  si richiede alla Prefettura di Napoli di informare immediatamente il giornalista circa le valutazioni effettuate in merito alle minacce e di comunicargli il prima possibile quali sono le misure che intende adottare per tutelare la sua incolumità e la prosecuzione della sua attività professionale”. In Parlamento sono state presentate anche interrogazioni parlamentari sul caso. Per ora senza risposta.

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Marinella, Roberta, Jyoti: tre donne che per l’8 marzo non hanno nulla da festeggiare

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Foto di Obbiettivi Toscani

di GERARDO ADINOLFI

“Basta” sussurrava con la voce flebile Marinella. “Te lo spacco quel muso”, le urlava invece il marito, Giacomo. E poi rumore di schiaffi: uno, due, tre, quattro, diciotto, diciannove, venti. Qualche minuto di silenzio. E poi giù botte, di nuovo.  Uno, due, tre quattro, diciotto, diciannove, venti. Marinella quella volta gli insulti, le umiliazioni, le botte le ha registrate. 40 minuti di terrore, che solo a leggerle mettono i brividi. Però non ha avuto il coraggio di denunciare suo marito. E a fine ottobre, secondo i pm, è stata uccisa, massacrata di botte. Il giorno del funerale, sulla tomba, c’erano anche i fiori comprati dal coniuge. Il caso era stato archiviato come morte naturale. Solo pochi giorni fa grazie alla denuncia del fratello di Marinella e alle indagini delle forze dell’ordine. E a quel cd con i 40 minuti di terrore l’uomo è stato arrestato, ed è indagato.

Dalla notte del 13-14 gennaio 2012 si sono perse invece le tracce di Roberta Ragusa. Imprenditrice, madre affettuosa di due figli che ora hanno 18 e 14 anni. Tre anni fa Roberta, nelle stesse ore in cui il mondo poco più lontano imparava a conoscere la Concordia e Schettino, è sparita. Senza documenti, cellulare, in pigiama. E senza i figli. Secondo l’accusa Roberta sarebbe stata uccisa dal marito Antonio Logli che poi avrebbe distrutto il cadavere. Venerdì 6 marzo la procura ha chiesto il rinvio a giudizio ma il gup è stato di altro avviso: Logli prosciolto perché il fatto non sussiste. Roberta potrebbe anche non essere stata uccisa, dice il giudice. Da tre anni però, di lei non c’è nessuna traccia.

In India il 16 dicembre 2012 una studentessa di 23 anni, Jyoti Singh, è stata stuprata da quattro uomini su un autobus a Delhi. La ragazza è morta alcuni giorni dopo a causa delle ferite. I colpevoli sono stati condannati a morte. In questi giorni però il governo indiano vuole vietare la proiezione di un documentario della regista inglese Leslee Udwin India’s Daughter che racconta quella brutale violenza.Il governo sostiene sia una “cospirazione internazionale per diffamare l’India”.

Qualche dato. Secondo il Viminale in Italia nel 2014 i reati di “maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli” sono passati da 11991 a 12125 e l’81 per cento delle vittime sono donne o bambine.  I reati di “sfruttamento della prostituzione” e “pornografia minorile” sono passati da 2927 nel 2013 a 3084 nel 2014, con un incremento del 5,4 per cento.

Domani 8 marzo 2015, la festa delle donne. Ma cosa c’è da festeggiare?

Ps E se per strada vi passa accanto una ragazza con gonna, calze e tacchi potete legittimanente pensare: “Che bella donna” ma non “Guarda come fa la troia”. Non è solo ciò che diciamo che ci caratterizza, ma soprattutto quello che pensiamo quando siamo da soli, con la nostra coscienza.

La foto è di Obbiettivi Toscani, dalla mostra Again(st) women

 

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Sanremo 2015, Siani e la battuta al bambino sovrappeso. Ma non è di certo la prima volta

“Guarda che il mio problema non sono le maniglie dell’amore” “E infatti sono le maniglie del frigorifero”

“Ho perso 15 chili” “E ch te luat e pil a piett? (Hai tolto i peli dal petto?”

“Io non sono chiatta” “Hai la pelle grassa”

“Io mi sto mantendendo” “Vicino al forno e tua madre e tuo padre che ti mantengono”

“Ieri ho visto che stavi camminando con un bambino in braccio” “Si era mio nipote” “Ah io pensavo che era la merenda, cannibale”

“Dimmi una cosa, io non ti piaccio?” “Apri questo prosciutto e fammi 700 grammi” “Ma non è un prosciutto” “E ci sono i peli, è cotica”

“Sai che io l’estate l’adoro, perché dimagrisco” “E dove sei stata ad agosto quest’anno, in Siberia?”

“Uà, ma chi è il Gabibbo in borghese?”

“Quando fate così mi fate venire i nervi a fior di pelle” “E meno male che non ti vengono a fior di latte, sennò te li mangiavi”

l43-alessandro-siani-130215171146_bigQueste battute sono tratte dallo spettacolo di Alessandro Siani Fiesta, nel 2004. Dieci anni fa, quando il comico ancora non era del tutto conosciuto a livello nazionale. Nel video dello show, disponibile su Youtube, ben cinque minuti, dal minuto 29 al 34 (nel video sotto) sono incentrati su uno skecht a 3 in cui la “vittima” delle battute è una ragazza in carne vestita di rosa che nello spettacolo finge di offendersi, piangere e dispiacersi.

Un elenco senza nessuna pretesa moralistica, né di critica. Ma che serve a spiegare a quanti si indignano per la battuta di ieri al Festival di Sanremo rivolta ad un bambino sovrappeso da Siani come il comico napoletano abbia fatto dello scherno dei difetti fisici uno dei suoi argomenti da trattare, anche a lungo, nei suoi spettacoli. Ho avuto modo di vedere Siani dal vivo a Lucca, qualche anno fa e una parte dello show era riservata proprio a questo genere di sfottò. Non ne faccio una colpa al comico, che pure mi piace e mi fa ridere, ma chi ha deciso che Siani debba essere il nuovo Troisi?. Forzature che servono a vendere, forse, a creare e rafforzare il personaggio. Ma che finiscono solo per fare peggio. Non esisterà un nuovo Troisi, così come Messi non è il nuovo Maradona. Non che siano inferiori, ma solo diversi. Ognuno ha la sua comicità che può piacere o non piacere.

Io di Alessandro Siani ricordo gli esordi a Pirati, su Telenapoli. Il comico vestiva i panni di un bambino fissato dei Pokemon, giubbotto rosso e berretto alla rovescia. “Quando vai sul tram di fanno sedere?” “Prima si siedono gli invalidi” “Allora a te ti fanno stendere”, era una delle battute. Poi chiedeva un bacio al braccio destro di un emergente Biagio Izzo nei panni del capitano della nave. “Nu bacett”, chiedeva Siani e quando il mozzo glielo dava Siani replicava: “Ricchion”. Scappando via.  Guai se l’avesse rifatto al Festival di Sanremo.

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Siamo davvero tutti Charlie Hebdo?

charlie-hebdodi GERARDO ADINOLFI

A chi è interessato veramente ciò che è successo in Francia? Chi si è indignato per la strage di Parigi? Chi è davvero Charlie Hebdo? La riflessione nasce durante una conversazione con un’amica. Una di quelle con cui puoi parlare di tutto, dalla ricetta della faraona con patate ai cambiamenti geopolitici del nuovo millennio. E lo spunto sono state le nostre bacheche Facebook invase dai cartelli “Je suis Charlie”, da post di solidarietà, di preoccupazione e di analisi di quanto stava succedendo a Parigi. Dagli articoli postato o semplicemente dall’interruzione della routine quotidiana della timeline in segno di rispetto.

A chi è interessato veramente quello che è successo in Francia, quindi? Non a tutti. Anzi, solo ai soliti (ig)noti. Non facciamoci influenzare dai 2 milioni di francesci scesi in piazza domenica. E’ la folla dei grandi eventi, quella che non si ripresenta se la stessa manifestazione fosse ripetuta magari a 4 mesi di distanza, quando ormai l’indignazione, la rabbia e la mente hanno già trovato o dovuto trovare altro per espriremere il proprio sdegno. E non facciamoci influenzare dalle manifestazioni spontanee nate in tante città italiane, da Roma a Firenze a Bologna a Milano. A scendere in piazza sono sempre i “pochi”. Cittadini attivi, che leggono i giornali, informati, dotati di un’etica tale da comprendere quando è il momento di agire. Anche solo simbolicamente. E gli altri?

“Ho i miei amici di Facebook delle elementari e delle medie che sono la cartina al tornasole – mi dice la mia compagna di discussioni – gente con cui non ho più nulla in comune se non aver frequentato la stessa classe anni e anni fa e che ora hanno tutt’altra vita rispetto a me, che se ne fregano della politica, che non hanno messo nessun cartello per Je suis Charlie, che non hanno fatto post in tema, che hanno continuato con i loro argomenti leggeri da Facebook”.

Chi si identifica allora, per davvero, in Charlie Hebdo? Tutte le persone si rispecchiano e hanno appreso il messaggio che una piccola parte della società civile ha voluto mandare?Ci sono esempi che proverebbero il contrario come un mio contatto che ieri mi ha chiesto in un messaggio privato: “Ma chi è poi questo Charlie?” E allora mi chiedo? “Noi, da giornalisti, facciamo bene il nostro lavoro? E quale è il confine tra chi deve avere l’obbligo di informare in modo corretto tutti e chi invece non vuole, semplicemente, essere informato?

“C’è un mio amico di Fb  che in quei giorni era a Parigi ad una fiera di settore – mi dice invece  la mia interlocutrice – e postava immagini di ragazze più o meno svestite, tutti sorridenti come se nulla fosse, come se fossero in un altro mondo”. “Noi ci guardiamo intorno tra i nostri simili (cioè tra persone che lavorano e vivono di informazione) – mi dice – e viene facile pensare che tutto il mondo è con noi e come noi. Invece non è così”.  Tutto regolare, sia chiaro. The show must go on.

Voi, cosa ne pensate?

 

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Charlie Hebdo, il terrorismo non ha religione

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Per chi in momenti orrendi e tragici come questi rischia di cadere nella trappola del razzismo etnico, religioso, ignorante. Ricordiamoci che gli assassini della quattordicenne Annalisa Durante erano italiani, e cattolici. Che gli autori della strage di Castelvolturno erano italiani, e cattolici (e le vittime africane). I killer di Giancarlo Siani, Pippo Fava, Giovanni Spampinato, Cosimo Cristina, Walter Tobagi erano italiani. Ricordiamoci che abbiamo esportato la mafia, la camorra e la ‘ndrangheta. Che a mettere il tritolo agli Uffizi, a Bologna, a Milano, sull’Italicus sono stati italiani. Il terrorismo non ha etnia, religione o nazione. E’ solo il frutto di estremismi, fondamentalismi e di una specie, l’uomo, che ha la violenza nel suo Dna. Ma sono convinto che alla fine il bene vinca sempre, in qualche modo. Je suis Charlie Hebdo.

Gerardo Adinolfi

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Pino Daniele, un brutto epilogo tra spettacolarizzazione e voyeurismo

pinodanieleSpettacolarizzazione e voyeurismo non mi sono mai piaciuti. Figurarsi quando si applicano ad un evento tragico, come la morte. In realtà non mi sono mai piaciuti neanche gli applausi al funerale. Io, da morto, pretenderei silenzio. Forse un po’ di commozione, ma che c’è da applaudire?

Una vita vissuta da artista e punto d’approdo dei sentimenti e dei desideri di un’infinito numero di persone sta rischiando di toccare fondi e precipizi mai conosciuti, ora che quella vita purtroppo non c’è più. Chissà come commenterebbe Pino Daniele i suoi primi giorni lontano da questo mondo. Quando la vita non ti appartiene tu, e per te decidono altri. Tralasciando le polemiche sui soccorsi e le diatribe fiamiliari sono le “liti” sul funerale, i sindaci che si “contendono” la sepoltura,  la paventata richiesta di esporre l’urna con le ceneri di Pino a Napoli per più di un giorno per permettere ai fan di poter dare l’ultimo saluto. E poi le urla all’esterno della camera ardente chiusa, gli insulti a Massimo D’Alema, la foto della salma pubblicata sul web.

Che bisogno c’è di tutto questo? Serve davvero? Stiamo restituendo a Pino Daniele quanto ci ha lasciato con le sue canzoni e la sua musica? Oppure, con la necessità di volerlo onorare, stiamo trasformando la sua morte in una farsa grottesca? E questa volta i media c’entrano poco e niente.

Non sono mai stato un fan sfegatato di Pino Daniele. Conosco le sue canzoni più importanti, le più belle. E ne riconosco la poesia. Ma anche da fan, per l’ultmo saluto, più che mettermi in coda e vedere un corpo ormai vuoto lo avrei ricordato e onorato ascoltando la mia canzone preferita nel chiuso della mia stanza, con le cuffie, e in silenzio. A me, ad esempio, Pino Daniele ricorda una serata trascorsa al Tribu, una pizzeria di Nocera Inferiore che frequentavo negli anni del liceo. Eravamo seduti a un tavolo, c’erano i miei amici di sempre, quelli che ancora oggi quando ritorno a casa è come se non ci fossimo mai lasciati. Il locale era buio, gli altoparlanti alti, le voci si confondevano. Sul maxischermo c’era un concerto di Pino Daniele. Aveva i capelli lunghi e ancora non del tutto bianchi. Cantava Je so’ pazzo.

Consigli di lettura: La vergognosa gazzarra alla camera ardente non è solo colpa della Casta

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Perché io non avrei pubblicato il video della morte di Mango

468x234_1402871052Tra il diritto di informare e la necessità del non scadere nel cattivo gusto e nell’inutile spettacolarizzazione c’è una linea sottile spesso invisibile. Che frequentemente viene sorpassata senza neanche farsi troppi problemi con il pretesto della completezza dell’informazione e di un racconto a 360 gradi.

Da giornalista, attento alle forme di comunicazione odierne (ha più senso dire nuove?) e ai gusti dei lettori (spesso opinabili) oggi, ad esempio, non avrei pubblicato il video della morte di Mango sul palco del palazzetto di Policoro, in provincia di Matera. Una grave perdita per il panorama musicale italiano, e soprattutto per quanti in tanti anni hanno trovato nelle canzoni del cantante appena sessantenne un sollievo, un momento di felicità, un attimo di spensieratezza o di poesia.

A che serve, però, vedere, far vedere e condividere l’istante esatto in cui Mango, mentre canta Oro (una delle sue canzoni più celebri) sul palco ha un malore e muore, a causa di un infarto? Giornalisticamente parlando, a nulla. Solo a spettacolarizzare la morte (come se non bastasse la scomparsa davanti a centinaia di persone e fan), solo a rendere i lettori “guardoni della fatalità”. Solo al far proliferare quel nuovo modo di fare informazione  che mette in secondo piano la notizia solo per lasciare spazio alla voglia di reality. Come se non fossimo già abbastanza consci di cosa è la morte. Come se non avessimo mai sofferto in vita nostra la perdita di quanto ci è caro. Come se avessimo bisogno di canalizzare le nostre paure trasformandole in realtà Una realtà che tocca, però, solo gli altri e cui vorremmo essere spettatori non paganti. Ma sempre alla debita distanza.

Il video, lo ammetto, io l’ho visto. Ed era inevitabile essendomi apparso insistentemente nella mia bacheca Facebook, e su Twitter, e sulle prime pagine di alcuni siti online. Anche il più scettico, prima o poi, si trova a fare i conti con la propria morbosa curiosità. L’ho visto e però me ne pento. Perché il ricordo che voglio avere di Mango non sono le sue ultime parole, di dolore, ma gli acuti de “La rondine” sparati a tutto volume nello stereo dell’auto durante i miei viaggi verso il mare, in estate. Quello sì che mi fa tornare in mente la serenità.

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E la Svizzera cerca traduttori di calabrese per combattere la ‘ndrangheta

unnamedSettantacinque franchi all’ora per traduttori di calabrese. La curiosa richiesta è della polizia federale giudiziaria svizzera alle prese con un’inchiesta sulla ‘ndrangheta. Un appello lanciato soprattutto agli studenti del dipartimento di italiano della facoltà di Lettera di un’università romanda di un Cantone della Svizzera. Le abilità che il calabrotraduttore dovrà avere? Conoscere il dialetto calabrese e saperlo tradurre in italiano e francese. E in più avere competenze informatiche e dar prova di senso di responsabilità. La storia la racconta il Corriere del Ticino.

Un annuncio quantomeno fuori dal comune, con una paga tutt’altro che misera. A quanto pare, però, non sarebbe la prima volta che la globalizzazione delle mafie spinge la polizia giudiziaria ad usare traduttori di dialetto. “Gli inquirenti italiani non hanno problemi- scrive il cronista sul Corriere del Ticino- giocoforza quelli svizzeri si devono attrezzare quando si tratta di indagare su categorie particolari di criminali. Senza un aiuto esterno la barriera linguistica può essere insormontabile”. Come dargliene torto.

 

 

 

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